di Matteo Mazzucato.

Dall’articolo “Faccio, E., Mazzucato, M., & Iudici, A. (2020). Discursive Chains: How Prison Becomes Real and Chains Identity Movements for a Sex Offender. International Journal for Crime, Justice & Social Democracy, 9(1)”.

Introduzione

All’interno del Codice Penale il reato di violenza sessuale è configurato dall’articolo 609 bis come delitto contro la persona e la libertà individuale da parte di chi “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali[1]. La condanna per un reato di violenza sessuale, tra le cui fattispecie è possibile annoverare stupro, violenza sessuale di gruppo o contro minorenni, prevede la reclusione in un istituto penitenziario, da 6 a 12 anni, così come l’immediata limitazione della libertà personale laddove siano stati confermati validi indizi di colpevolezza. Come esplicitato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 265/2010), tali misure cautelative hanno la funzione di rimuovere “l’allarme sociale cagionato dal reato” e come interpretazione da parte del legislatore di un “sentimento di riprovazione sociale” verso tali forme di criminalità “avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose”. Chi è giuridicamente definito come “sex offender[2]” è infatti considerato dall’immaginario collettivo come “socialmente diverso”, “moralmente deviante”, “psichicamente diverso”, “estraneo e problematico”, “disturbato dall’infanzia e impulsivo” e “socialmente inaccettabile” (Salvini, 1998). Tali “sentimenti di riprovazione sociale” non abitano solo i discorsi di senso comune al di fuori delle istituzioni ma anche le stesse carceri a cui le persone condannate, per questo o altri reati, sono destinate. Anche all’interno degli istituti penitenziari infatti, chi è stato condannato per un reato di violenza sessuale, non solo si ritrova a dover gestire tutte le complessità giuridiche, psicologiche e sociali connesse con una detenzione (Vianello, 2012), ma anche una condanna sociale e morale per aver commesso uno dei reati più disprezzati e disprezzabili da parte della comunità penitenziaria e non (Priestly, 1980). Coerentemente ai giudizi di senso comune attribuiti all’etichetta di “sex offender”, l’autore di un reato a sfondo sessuale è considerato, secondo un tacito codice di condotta condiviso tra persone detenute (Iudici & Maiocchi, 2014) come una persona da offendere, verbalmente e fisicamente, proprio in virtù del reato commesso. Secondo la letteratura sono infatti considerati all’interno della cosmologia penitenziaria come “capri espiatori” da ostracizzare e considerare al livello più basso della scala gerarchica dei detenuti (Priestly, 1980); “animali” a cui dare cibo e bevande mischiati con insetti e liquidi corporei (Sampson, 2003); “quasi meno che esseri umani se non mostri” (Ievins & Crewe, p.484, 2015). Al fine di evitare episodi di violenza tra persone detenute, scaturiti proprio a partire dal rispetto dei valori espressi da tale “codice di condotta dei detenuti”, le amministrazioni penitenziarie predispongono, per chi è stato condannato per un reato di violenza sessuale, l’attuazione di misure detentive in sezioni separate dalla restante popolazione carceraria[3]. All’interno del contesto italiano queste unità isolate delle carceri vengono solitamente denominate “protette” e al loro interno sono inseriti non solo “sex offender” ma tutte le persone detenute che “non possono vivere nelle sezioni comuni perché hanno tenuto comportamenti contrari all’etica della maggioranza della popolazione detenuta (collaborare con la giustizia, compiere reati di natura sessuale, in special modo la pedofilia)[4].

I sex offender vivono la carcerazione in modo diverso[5]

In un contesto sociale come la prigione, in cui il reato commesso diventa un vero e proprio documento d’identità da esibire e presentare agli altri per far parte della comunità carceraria (Faccio & Costa, 2013), qualsiasi incontro con un’altra persona detenuta può essere vissuto come un pericolo per la propria sicurezza personale per chi ha commesso un reato socialmente discriminabile come la violenza sessuale. Il carcere, infatti, per una persona condannata per un reato di violenza sessuale, può essere vissuto come un ambiente “minaccioso” da cui proteggersi (Jewkes, Crewe, & Bennett, 2016). Questa “protezione” di sé e della propria immagine pubblica come “vero detenuto – al pari degli altri” (Ugelvik, 2014) può essere ottenuta: negando di aver commesso il reato di violenza sessuale per il quale si è stati incarcerati; costruendosi la reputazione di qualcuno che è pronto a utilizzare la violenza per difendersi; o cercando la “protezione” fisica da qualche altro detenuto (Schwaebe, 2005). In questo senso, anche il racconto di sé e della propria storia negli scambi terapeutici di gruppo o vis a vis, con educatore o psicologo, sono considerate narrazioni da costruire e condividere con molta attenzione al fine di tutelare la propria sicurezza personale (Jewkes, Crewe, & Bennett, 2016). La scelta infatti di negare il reato commesso o minimizzare la propria responsabilità su quanto accaduto, pur ostacolando il processo di valutazione psicologica e il coinvolgimento in attività ri-abilitative utili al proseguimento del proprio percorso in carcere (Bladgen et al, 2011), diventa un’opzione non solo possibile ma anche desiderabile laddove permetta di mantenere un’immagine di sé socialmente accettabile e “altra” da quella stigmatizzata di “sex offender”. All’interno del contesto penitenziario infatti l’etichetta di “sex offender” è vissuta e rappresentata come uno stigma sociale che impatta significativamente nell’esperienza della carcerazione e nel rapporto con le altre persone detenute (Jewkes, Crewe, & Bennett, 2016). Anche “l’allocazione in sezione protetta è ragione sufficiente a sviluppare nell’immaginario collettivo, l’idea che il sex offender sia un soggetto, oltre che infame e pericoloso, anche senza moralità, marchio che appunto rimarrà stampato a fuoco anche una volta scarcerato” (Sergi et. al., 2019, p. 2). La stessa scelta infatti di raggruppare in unità isolate tutti coloro i quali necessitano di una “protezione” come i “sex offender”, pur consentendo al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria di perseguire un obiettivo di tutela della salute delle persone al suo interno e ai detenuti di poter percepire un maggiore senso di “sicurezza” personale, contribuirebbe al contempo, come dimostrato da recenti studi (Bladgen et al., 2017), ad alimentare un sentimento di “diversità” dalla restante popolazione carceraria  e non.

Quali interrogativi da interrogare? Le domande di Ricerca

Considerando allora come la ragion d’essere della carcerazione si fondi su obiettivi di ri-educazione e di re-inserimento sociale della persona detenuta come cittadino e a prescindere dalla qualifica della condotta deviante commessa, in che modo questo può dirsi un percorso percorribile e generativo di un cambiamento anche per una persona a cui è stata attribuita l’etichetta giuridica di “sex offender”, laddove percorrerlo significhi accettare l’attribuzione di uno stigma sociale da cui doversi proteggere ? In che modo è possibile immaginare lo sviluppo di nuove traiettorie biografiche in un contesto che mantiene la persona condannata per violenza sessuale ancorata e “incatenata” al reato commesso attraverso l’utilizzo di pratiche discorsive e trattamentali che la legano ad uno status di “detenuto da offendere” o come “detenuto da proteggere”? A partire da queste condizioni, cosa significa allora “carcere” per una persona condannata per un reato di violenza sessuale e isolata in una sezione separata dalle altre?

Considerando poi come i processi di categorizzazione e stigmatizzazione di una persona condannata per violenza sessuale travalichino le mura del carcere e coinvolgano l’intera comunità: in che modo vengono percepite le proposte di attività trattamentali e ri-educative volte ad una assunzione di responsabilità circa la propria condotta, laddove aderire a queste significhi accettare di definirsi “sex offender – da ri-educare e da re-inserire socialmente”?

Ancora, in uno spazio come l’unità “protetti”, dove le celle sono sempre aperte e la possibilità di accedere a delle aree comuni diventa un’occasione quotidiana di incontro con altre persone condannate per il medesimo reato e che condividono un medesimo processo di ostracizzazione da parte delle altre persone detenute, il reato commesso può diventare un’occasione di relazione e di appartenenza a un gruppo come accade nelle altre aree del carcere?

Considerando, infine, tutte le complessità descritte e connesse con l’essere incarcerato per una condanna per “violenza sessuale”, quale futuro è possibile immaginare al di fuori del carcere?

La Ricerca

Al fine di rispondere a questi interrogativi, si è scelto di realizzare uno studio all’interno della sezione “Protetti” dell’istituto penitenziario Due Palazzi di Padova con lo scopo di esplorare come le persone detenute per un reato di violenza sessuale vivevano l’esperienza del carcere.

Prospettive teoriche e metodologia della ricerca

Adeguatamente a questo scopo di ricerca si è scelto di utilizzare come cornice teorico-epistemologica la prospettiva post-moderna interazionista (Blumer, 1969; Salvini, 1998) secondo cui “nelle configurazioni e dell’agire umano non ci sono ‘cose’ od ‘oggetti’ o ‘fatti’, ma solo entità o eventi che il linguaggio ritaglia come tali mediante attribuzioni di senso e significato” (Salvini, Dondoni & Armezzani, 2011 p. 17). Coerentemente alla prospettiva teorica delineata, si è scelto di utilizzare come metodo di raccolta dei dati un questionario a risposta aperta per mettere i partecipanti nelle condizioni di esprimere le proprie ‘attribuzioni di senso e significato’ rispetto ai temi proposti, considerando in questo senso “dati utili” allo studio i testi prodotti dalle loro risposte. Si è scelto poi di analizzare i dati testuali raccolti indagando i repertori conoscitivi (Iudici, Boccato & Faccio, 2018) attraverso cui i partecipanti attribuivano senso e significato agli eventi vissuti nel contesto della sezione “protetti” del carcere Due Palazzi di Padova. In questo senso, è stato possibile identificare tali repertori analizzando i modi, intesi come processi linguistici di costruzione della realtà, attraverso cui i partecipanti alla ricerca configuravano gli elementi presentati dalle loro risposte (Potter & Wetherell, 1987; Neri, 2018).

Partecipanti

In accordo con il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, lo staff psico-pedagogico del carcere, il direttore della prigione e previa autorizzazione del Comitato Etico Scientifico dell’Università degli Studi di Padova della Facoltà di Psicologia, hanno liberamente partecipato allo studio 32 persone detenute all’interno della sezione protetti della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova e condannate per un reato di violenza sessuale secondo l’articolo 609 del Codice Penale.

Risultati[6]

Dall’analisi delle risposte dei partecipanti è emerso in modo condiviso e ridondante come l’esperienza del carcere venga configurata attraverso l’idea di una “convivenza forzata” con altre persone detenute, un modo di vivere la prigione che considera la “sopravvivenza[7]” alla carcerazione quale fine ultimo del proprio periodo di detenzione. In linea con questi risultati, l’esperienza del carcere è stata descritta come una forma di “tortura”, ovvero un modo di concepire la carcerazione che contempla, secondo le parole dei partecipanti, il dover fronteggiare, anche attraverso la messa in atto di condotte violente, “prepotenze, minacce e pressioni” e “torture psicologiche e fisiche”, sia da parte dei propri compagni di sezione che da parte degli agenti penitenziari. In tale contesto interattivo, gli operatori e le attività proposte sono percepiti come “assenti” e il rapporto tra le stesse persone detenute è stato configurato attraverso i repertori della “diffidenza”, della “sfiducia” e del “sospetto”. Nell’utilizzo di tali repertori come matrici di senso e significato, il proprio compagno di sezione, etichettato come “sex offender”, viene vissuto come qualcuno che “giudica gli altri”,  “mente su ciò che ha fatto” e che è pronto a “costruire una verità di comodo da condividere con compagni di sezione e operatori”. “Convivere” in carcere significa anche un “doversi adattare”, un modo di concepire la carcerazione in cui è necessario sapersi “adeguare e mimetizzare al sistema” per “stare bene” in prigione e nella sezione protetti. Nel considerare il processo di adattamento al contesto come modalità attraverso cui dare senso e significato all’esperienza di carcere emerge, in modo significativo dalle risposte ai partecipanti, il tema dell’appartenenza alla sezione “protetti”, vissuta sia come “marchio” che come “forma di esclusione”. Coerentemente a questi dati, il carcere non viene considerato come un contesto che crea le condizioni per immaginare altre possibilità di vita da quelle intraprese prima della detenzione. Le difficoltà anticipate, infatti, nell’intraprendere un cambiamento in un domani al di fuori del carcere, si articolano a partire da una presupposta esclusione sociale messa in atto contro di loro non solo come “detenuti” ma anche come “sex offender”, un’etichetta che si presume utilizzi il senso comune per descrivere la persona a cui è assegnata come “mostro” e “persona non civile”.

Discussione dei risultati

Riprendendo gli interrogativi che hanno guidato la costruzione del progetto di ricerca, i risultati emersi da questo studio permettono di ricostruire come il carcere, per una persona condannata per un reato di violenza sessuale e collocato nella sezione “protetti”, rappresenti un’esperienza vissuta nei termini di una co-abitazione forzata con altre persone detenute e, nella quale, sperimentare e vivere una attuale e futura “esclusione sociale”. All’interno di questo scenario, le relazioni all’interno della sezione sono costruite e mantenute attraverso il discorso della “diffidenza” e del “sospetto”, sia rispetto ai compagni di sezione che allo staff del penitenziario. Gli agenti penitenziari sono stati infatti configurati come e “ostili”, gli operatori psico-educativi come professionisti assenti e le attività trattamentali, ancora una volta, assenti o per loro non disponibili proprio in virtù del loro status di “protetti”. Dai risultati emersi è interessante notare come l’appartenenza a una sezione condivisa con persone detenute per il medesimo reato, non venga considerata come condizione utile da sfruttare per attivare una forma di aiuto reciproco come invece accade per altre sezioni dello stesso istituto (Faccio & Costa, 2013) o come elemento che possa consentire un’identificazione ad una subcultura carceraria come può accadere per altre persone detenute (Vianello, 2012). L’appartenenza alla “sezione protetti” è stata piuttosto considerata non solo come stigma ma anche come elemento contestuale e repertorio interpretativo utile a pre-ordinare le relazioni con chi ne fa parte secondo schemi di tipizzazione (Salvini, 1998) che configurano a priori il proprio compagno di sezione come un “sex offender” che “mente” intenzionalmente o che “giudica” gli altri. Stare nella sezione protetti significa infatti imparare a controllare accuratamente quali relazioni mantenere o costruire e quali possibili discorsi su di sé far trapelare. Secondo i partecipanti alla ricerca ciò diventa possibile imparando a “sospettare degli altri”, a “mimetizzarsie ad “adattarsi”al contesto, secondo una forma di adattamento che Goffman (1976) definirebbe di “ritiro dalla situazione” ovvero “il rifiuto del contesto e quindi la rinuncia a qualsiasi forma di confronto e di socialità, con conseguenti atteggiamenti depressivi e un’attitudine passiva” (Vianello, 2012, p. 66). Dai testi analizzati, l’utilizzo del discorso “sfiducia” e del discorso “diffidenza” nei confronti degli altri, crea inoltre i criteri attraverso i quali interpretare le azioni degli altri e, sulla base di questa, giustificare la messa in atto di azioni violente considerate come comportamenti che “in automatico” possono venirsi a creare nella sezione “protetti”, nonostante il carcere, tra i suoi intenti aspiri a incrementare una maggiore presa di responsabilità delle proprie azioni, non solo passate ma anche e soprattutto attuali e in anticipazione per il futuro. Ciò che è interessante notare è che l’utilizzo di questi schemi relazionali nei confronti dei propri compagni di sezione, pur consentendo loro di “proteggersi” e “sopravvivere” nel carcere e nella sezione, alimentano lo stesso stigma e gli stessi pregiudizi che potrebbero essere a loro stessi, come autori di un reato a sfondo sessuale, attribuiti e che, i partecipanti stessi si vedono assegnare nel loro futuro al di fuori del carcere.  Per quanto riguarda infatti i risultati inerenti al modo in cui i partecipanti alla ricerca e appartenenti alla sezione protetti configurano il “futuro”, dai testi è emerso come questi non siano nelle condizioni di riuscire a immaginare né il proprio futuro all’esterno del carcere, prefigurato come incerto e caratterizzato da forme di esclusione sociale da parte della comunità, né un possibile cambiamento legato alle proprie traiettorie biografiche, possibilità configurata come irrealizzabile o percorribile piuttosto nei termini di una “specializzazione alla condotta criminale”.

Conclusioni e traiettorie future

Considerando come l’art. 1 delle Norme sull’ Ordinamento Penitenziario[8] stabilisca che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”, nella progettazione di percorsi terapeutico riabilitativi per persone condannate per un reato di violenza sessuale diventa allora fondamentale, sulla scorta dei risultati emersi dal presente studio, tenere in considerazione alcuni elementi:

  1. L’etichetta di “sex offender” in carcere può essere percepita su di sé e subita come forma di esclusione, attuale e futura, da parte della comunità così come essere attribuita agli stessi compagni di sezione come strumento per regolare le relazioni mantenute e create al suo interno. Questa etichetta, se da un lato non consente di contemplare da parte delle stesse persone detenute un possibile re-inserimento sociale, prevedendo, proprio a partire da questa, una futura forma di esclusione sociale da parte della comunità; dall’altro, considerata come “stigma sociale” da disconfermare e rigettare pubblicamente, promuove la costruzione di storie alternative su di sé e sulla propria vicenda giudiziaria con lo scopo di mantenere e far riconoscere una “credibile” distanza tra sé come “detenuto” e gli altri come “sex offender”. In questo senso, l’etichetta di sex offender, laddove subita rispetto alla possibilità di immaginare un “re-inserimento sociale” rispetto al proprio futuro o attivamente agita sugli altri come forma discriminatoria, in antitesi con obiettivi ri-educativi, è fondamentale venga monitorata nel suo utilizzo e de-costruita nei suoi effetti, laddove questi non consentano di perseguire gli obiettivi terapeutico riabilitativi posti proprio da una carcerazione.
  2. Considerando ancora una volta la funzione ri-educativa e di re-inserimento sociale che la prigione si auspica di ottenere, è utile ripensare alle pratiche gestionali utilizzate in carcere per le persone condannate per un reato di violenza sessuale e collocate, in virtù di questo, in una sezione isolata dalla altre. In una logica lose-lose, se dalla parte delle persone condannate per violenza sessuale, tale collocazione alimenta la percezione di uno status di “diversità” e di “esclusione” oltre che limitare le possibilità di partecipazione alle attività proposte dal carcere; dall’altra parte, della restante popolazione carceraria, la scelta di isolare una “tipologia” di detenuti non solo non consente di esercitare e consolidare competenze di inclusione utili ad un re-inserimento sociale quanto rende giustificabili e possibili le stesse forme di esclusione sociale che si vuole far abbandonare alle stesse persone condannate perseguendo un obiettivo di ri-educazione. In questo senso diventa fondamentale creare le condizioni per rendere anche l’incontro con l’altro un’occasione per perseguire gli obiettivi che il carcere si pone e, al contempo, un’opportunità per confrontarsi con proprie o altrui convinzioni su di sé, gli altri e il mondo.
  3. L’architettura dei servizi relativi la detenzione di un “sex offender” in carcere,  è coerente con le credenze di senso comune che configurano la persona condannata per il reato di violenza sessuale come una persona “diversa” – da proteggere dagli altri detenuti – da detenere per almeno un anno all’interno del carcere senza possibilità di sospensione della pena – e da sottoporre a un trattamento rieducativo – psicologico a partire da una scrupolosa “osservazione scientifica della personalità”[9].  Da un punto di vista clinico, nel configurare le politiche di gestione degli autori di reato a sfondo sessuale in carcere in questi termini, si creano le condizioni per l’assegnazione di nuovi parti di sé come “detenuto”, “protetto” o “sex offender” che possono alimentare la saturazione, in anticipazione, della possibile descrizione della persona a cui sono riferite (Digard, 2010). Secondo la letteratura (Faccio, Bordin & Cipolletta, 2013; Burke & Stets, 2009), in un contesto percepito come “minaccioso” così come in un momento di transizione identitaria, come la carcerazione, è possibile che una persona si appropri delle stesse etichette, che si immagina gli altri usino per descriverla, come discorsi non solo possibili ma fondativi del proprio “sé”. Ecco che, nell’appropriarsi di queste definizioni di sè, è possibile che queste abbiano delle implicazioni significative nella possibilità di innescare un cambiamento utile ai fini di un re-inserimento sociale. Sulla base di queste considerazioni e sui dati emersi dal presente studio, diventa allora fondamentale creare le condizioni per aumentare le possibilità biografiche delle persone detenute e ancor di più per le persone a cui è stata assegnata una condanna per violenza sessuale, attraverso esperienze che consentano di sperimentare ruoli, immagini di sè e identità spendibili al di fuori del carcere e in grado di poter far immaginare un futuro come cittadino e risorsa della comunità.
  4. In ultimo, ma non in termini di importanza, considerando le difficoltà connesse con il fare ricerca in carcere e nello specifico con persone detenute per un reato di violenza sessuale (Ievins, 2014), diventa fondamentale dare risonanza a questi risultati nelle prigioni e con il personale psico-pedagogico così come promuovere nuovi studi che diano voce alle persone detenute e che consentano di mettere in luce tutti gli elementi che se non gestiti rischiano di compromettere gli obiettivi psicologico-educativi stabiliti per le persone detenute in un percorso trattamentale intramurario.

BIBLIOGRAFIA

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NOTE

[1] Art. 609 del Codice Penale, approvato con Regio Decreto del 19 ottobre 1930 https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-ii/art609bis.html

[2] In ambito giuridico viene definito “sex offender” la persona autrice di reato di violenza sessuale.

[3] All’interno delle case di reclusione, questo isolamento può essere totale, azzerando il numero di possibili contatti con altre persone detenute per “altri” reati o parziale, previa autorizzazione dello staff psico-educativo del carcere e sotto stretto controllo degli agenti di polizia penitenziaria per tutelare la loro sicurezza, e relativo alla possibilità di partecipare ad attività ricreative o occupazionali all’esterno della sezione (Vianello, 2012).

[4] http://www.ristretti.it/glossario/altritermini.htm

[5] Jewkes, Crewe, & Bennett, 2016, p. 249.

[6] Per una lettura approfondita dei risultati della presente ricerca si rinvia all’articolo Faccio, E., Mazzucato, M., & Iudici, A. (2020). Discursive Chains: How Prison Becomes Real and Chains Identity Movements for a Sex Offender. International Journal for Crime, Justice & Social Democracy, 9(1).

[7] All’interno della sezione del testo “risultati”, si è scelto di utilizzare il formato corsivo ogniqualvolta sono state direttamente riportate intere porzioni di testo estrapolate dalle risposte dei partecipanti.

[8] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1975/08/09/075U0354/sg

[9] Durante il percorso intramurario, come per tutte le altre persone detenute, essi saranno sottoposti, secondo l’articolo 13 dell’Ordinamento Penitenziario, ad una “osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento” https://www.brocardi.it/legge-ordinamento-penitenziario/titolo-i/capo-iii/art13.html