Alcolismo: malattia subìta o realtà generata? Riflessioni sulla gestione di un gruppo di auto mutuo aiuto (AMA)

di Virginia Cecchin

Alcolismo, e più in generale, tossicodipendenza, risultano fenomeni di grande portata sociale e culturale al punto da essere entrati a far parte della pluralità dei discorsi prodotti dalla comunità dei parlanti, assumendo differenti configurazioni spesso pervase dal senso comune.

Al di là della stigmatizzazione che si realizza a livello informale, attraverso l’interazione con il contesto di appartenenza, va considerato come le narrazioni che si sviluppano attorno al tema si muovano spesso entro una cornice normativa che concorre all’identificazione del fenomeno come deviante.

A tal proposito è opportuno chiedersi in che modo l’essere definiti secondo stereotipi di non conformità alla norma, l’essere protagonisti di un processo di disapprovazione sociale, ma anche il divenire oggetto di programmi di cura e assistenza possa concorrere al rafforzamento e alla cristallizzazione di un’identità negativa e più in generale al mantenimento di quelle che si possono definire “carriere devianti”.

Il contesto e le narrazioni

“Noi non possiamo essere come gli altri”; “l’alcolista è un malato, è riconosciuto da tutti in questo modo”; “anche se è anni che non bevi puoi sempre ricadere”; “l’alcolista mente, mente perché è malato”; “l’alcolista resta alcolista tutta la vita”.

Queste alcune delle narrazioni che riecheggiano nella sala di un Ser. D. dedicata ad un gruppo AMA rivolto ad alcolisti a cadenza settimanale, costituito con l’obiettivo di favorire l condivisione delle proprie esperienze tra interlocutori che vivono o hanno vissuto un’esperienza di uso di alcol. Esperienze che, entro una realtà caratterizzata da una forte connotazione medica come quella dei servizi per le dipendenze, finiscono per praticare un unico ruolo, quello dell’“alcolista”, che poco ci dice della sua storia, del suo percorso e del suo mondo di significati.

Seduta nel cerchio, nel ruolo di osservatrice ascolto, analizzo, rifletto su ciò che in quella stanza si genera; interrogativi complessi ma inevitabili mi si presentano dinanzi: quanto le narrazioni prodotte nel gruppo AMA risentono delle definizioni istituzionalidella predominanza di un linguaggio medicalizzato? Quali sono gli impliciti e le teorie che guidano gli scambi comunicativi tra i partecipanti? Il gruppo risulta dotato di un potere generativo di possibilità altre o si muove piuttosto in termini di cristallizzazione di un’identità in cui il ruolo di “alcolista” è pervasivo?

Domande spinose, che non ambiscono tanto ad una risposta universale ma richiedono altresì uno sforzo: quello di problematizzare quanto rilevato, poiché solo mettendo in discussione ciò che diamo per assodato e “vero” possiamo incedere nel processo di conoscenza, verso la generazione di nuovi scenari e nuove possibilità.

La costruzione e il consolidamento di un’identità deviante.

Se consideriamo l’identità come l’esito di un processo di auto ed etero-attribuzioni (Salvini, 2004; Turchi, 2002), in cui i rimandi dell’”altro” e del contesto esercitano un ruolo determinante in termini di definizione di sé, diventa evidente come un’esperienza di gruppo possa assumere in tal senso un forte potere. Entrando nel merito del gruppo AMA in oggetto, i discorsi, le conversazioni prodotte da utenti, familiari e professionisti paiono convergere verso un’unica visione, quella dell’alcolista come un malato cronico. Ciò che sembra mancare è la considerazione del ruolo attivo e intenzionale dell’individuo a favore di una descrizione connotata prevalentemente in modo negativo.

“Non ci possiamo fare niente, è la mente che ci porta a bere, non saremo mai come gli altri che si possono bere un bicchiere, noi non ci controlliamo”; “gli altri ti guardano in modo diverso, diffidente, ma è normale, non ci si può fidare di un alcolista perché anche se non beve la ricaduta è sempre dietro l’angolo”

“chi beve lo distingui subito, non fanno altro, non gli interessa altro, è come se avessero un difetto mentale”

Descrizioni che una volta accolte e fatte proprie dall’individuo possono divenire pervasive e totalizzanti, riducendo notevolmente il ventaglio di possibilità biografiche ed esistenziali a disposizione. In tal modo, un’esperienza che nasce con il fine di fornire sostegno, confronto e condivisione, rischia di rafforzare un ruolo disfunzionale a discapito di abiti identitari alternativi e positivi.

Gruppi AMA: nuove rotte e scenari possibili per uno/a psicoterapeuta interazionista

Come professionisti siamo a questo punto chiamati ad interrogarci circa possibili usi inediti e generativi degli interventi di gruppo attraverso un cambio di rotta.

Lo spostamento dell’attenzione dal dualismo “normale/anormale” e dalla concezione dell’etichetta di alcolista come “tratto” permanente alla co-costruzione di nuove possibilità di vita risulta una mossa utile a promuovere una concezione del gruppo terapeutico non tanto come contesto volto a favorire l’accettazione della propria condizione patologica ma come realtà entro cui diviene possibile la ridefinizione e la riscrittura della propria esperienza.

Muovendosi da questi presupposti, il gruppo consentirebbe da un lato l’innescarsi di processi di ristrutturazione identitaria grazie ad una risignificazione della propria biografia e la costruzione di nuovi ruoli, dall’altro la produzione di un nuovo “vocabolario” e di nuove “lenti” con cui leggere e osservare le plurime realtà dei propri contesti di vita. A tal proposito, la presenza di operatori che utilizzino le interazioni entro il gruppo come veicolo di cambiamento e che promuovano domande volte all’esplorazione delle esperienze di ogni singolo, risulta elemento essenziale alla predisposizione di un terreno fertile allo sviluppo di nuovi scenari di vita e definizioni di sé.


Riferimenti bibliografici
Becker H.S. (1987). Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Meltemi, Milano.
Berger P.L. & Luckmann T. (1966). The social Construction of Reality, Garden City, New York,
De Leo G. & Patrizia P. (2002). Psicologia della devianza, Carocci, Roma.                                    
Goffman E. (1969). La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna.                 
Goffman E. (1983). Stigma, Giuffré, Milano.
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Salvini A., Testoni I. & Zamperini A. (2002). Droghe. Tossicofilia e tossicodipendenza, Utet, Torino.  Salvini A. (2004), Psicologia clinica, UPSEL Domeneghini Editore,Padova.
Turchi G.P. (2002). Tossicodipendenza. Generare il cambiamento tra mutamento di paradigma ed effetti pragmatici, Domeneghini, Padova.
Ugolini P. (2013). Alcol e buone prassi sociologiche. Ricerca, osservatori, piani di zona, clinica, prevenzione, FrancoAngeli, Milano.


L’autrice dell’articolo:
Virginia Cecchin
Specializzanda in Psicoterapia Interazionista. Opera come psicologa nell’ambito delle dipendenze e della psicologia scolastica attraverso attività di formazione e consulenza.
Riceve a Como in Via Pastrengo 15