Per ricordare che oltre la diagnosi c’è sempre un bambino
di Agata Gulisano
I Bisogni Educativi Speciali si riferiscono a particolari esigenze educative che possono riguardare gli alunni anche solo per determinanti periodi. I BES riassumono tre grandi sottocategorie: quella della disabilità (L. 104/92); quella dei disturbi evoluti specifici (L. 170/2010); quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale (si pensi al numero di alunni stranieri presenti a scuola negli ultimi anni). Per l’a.s. 2016/2017 gli alunni con disabilità frequentanti le scuole italiane risultano pari a 254.366, 2,9% del numero complessivo degli alunni prossimo a 8,7 milioni. Gli alunni con disabilità intellettiva (L.104/92) rappresentano la maggioranza degli alunni con disabilità, raggiungendo il 70,7% del totale alunni con disabilità nella scuola primaria e il 71,6% nella scuola secondaria di I grado; nella scuola dell’infanzia e nella scuola secondaria di II grado si attestano su percentuali più contenute, rispettivamente pari a 58,3% e a 64,2%.
Quello che la diagnosi non dice…
In quanto psicologa, operativa in diversi Istituti Comprensivi (dalla Primaria alla Secondaria), incontro insegnanti e docenti per consulenze relative alle difficoltà scolastiche di insegnanti e studenti. Ciò che negli ultimi anni emerge con particolare forza riguarda lo scarto portato dagli stessi insegnanti tra quanto la diagnosi offre e ciò che rilevano, osservano, direttamente in classe; tra come è descritto il minore nella certificazione [1] e come i docenti lo conoscono nelle relazioni di vita quotidiana.
Quello che costantemente riscontriamo, tra colleghi che lavorano a scuola, è infatti la convinzione che il bambino sia molto più delle difficoltà elencate nella diagnosi. Come scrive anche Pavone: ‘serve osservare alcune cautele come non identificare l’allievo con il suo deficit.’ Per esempio la diagnosi è prevalentemente personologica e quasi sempre è redatta usando test e strumenti che si basano sulle risposte del bambino, ma non del bambino nell’interazione con gli altri e tanto meno in interazione con i compagni (Iudici, 2015). Eppure una delle finalità della scuola è quella dell’inclusione e della socializzazione. Ora, non è questa la sede per disquisire su cosa si intenda per inclusione, ma ci preme mostrare cosa succede nel momento in cui un bambino è descritto e raccontato, dai docenti, esclusivamente rispetto a quanto si legge nella sua diagnosi.
Quali ricadute di tali categorizzazioni a livello operativo?
Le etichette diagnostiche in quanto esemplificazioni categoriali spesso reificano la persona, e in particolare ciò che è definito come problematico, limitando il suo essere e agire in quell’etichetta.
Frequentemente gli si affibbia un attributo che diviene inizialmente una fotografia con cui spiegare il comportamento non accettato, considerandolo successivamente un elemento d’identità entro cui riconoscere un disturbo. All’atto pratico quello che era un bambino diviene talvolta un incapace a trecentosessanta gradi, perdendo di vista le sue competenze.
Il rischio che si concretizza a scuola è di rinchiuderlo in quell’etichetta, considerarlo in base ai “non”, escluderlo dalle attività della classe – perché è troppo agitato- e considerarlo incluso nel momento in cui adegua il proprio comportamento sulle richieste.
Parlando di alcune difficoltà, già don Milani nel 1971 diceva: “L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Soprattutto in questa epoca storica, si rischia di perdere di vista il ruolo del contesto sociale e culturale, e l’interazione che si viene a creare tra esso e il soggetto. Usando un’analogia, la mappa non è il territorio e la diagnosi non è la persona.
E allora, come usare la diagnosi personologica a scuola?
Attualmente è uno strumento che offre al minore le condizioni di supporto e sussidi che favoriscono un adeguamento, secondo criteri normativi, alla giornata scolastica.
Ad esempio, i rischi che la persona con diagnosi sia considerata in base a quanto non segua la lezione in classe, piuttosto che in base alla propria specificità, è molto alta.
Come abbiamo visto, gli effetti di un etichettamento sono concreti e la diagnosi rischia di diventare ciò che rafforza la differenza tra alunni, nonché un modo prevaricatorio di chiedere al diverso di adeguarsi al gruppo classe, che peraltro cambia costantemente e dipende anche dalle abilità delle insegnanti.
Una risposta sembra darla il Ministro, infatti la direttiva ministeriale 12/2012 recita: è opportuno assumere un approccio decisamente educativo, per il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene esclusivamente sulla base della eventuale certificazione, che certamente mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie, ma allo stesso tempo rischia di chiuderli in una cornice ristretta. Quindi, si offre l’occasione di integrare la descrizione dettata dalla diagnosi con ciò che gli insegnanti rilevano, recitando che va potenziata la cultura dell’inclusione.
Quale alternativa?
Rispetto a questo nella nostra esperienza non abbiamo risposte definitive ma tante domande che possano consentire di passare dal “cosa ha il bambino” a “come si possono creare interazioni funzionali o generative”.
Quali sono le potenzialità del minore? Che posto occupano le narrazioni che girano attorno all’alunno? Come si può, anche considerando la certificazione, cogliere le sfumature e le diverse sfaccettature del minore? Che fine fanno le sue abilità e le competenze? Il rischio è perdere di vista quello che il bambino, il ragazzo, sa fare a prescindere dalla stessa menomazione. È possibile offrire all’alunno strategie per muoversi dentro l’ambito scolastico, e normativo, che gli consentano di fare i conti con quelle che sono riconosciute come le sue difficoltà?
Queste domande sono il frutto di riflessioni condivise con colleghi, con dirigenti scolastici e con tanti insegnanti nell’ottica di chi vuole responsabilizzare e non de-responsabilizzare. È facile scivolare sulla delega, delegare al disturbo le criticità espresse dalla scuola, così come nei vari ambiti di vita. Come si può responsabilizzare, quindi, l’adulto e la scuola nei confronti dell’alunno? E come si può rendere consapevole il minore delle capacità che possiede? Come fargliele usare in un’ottica di autonomia nel suo progetto di vita?
Come scrive Frances (2016), autore del testo “Primo non curare chi è normale” l’ex curatore del DSM IV, in profondo dissidio con le nuove edizioni del Manuale: ‘il modo di etichettare i disturbi mentali si è evoluto nel tempo perché la lente dell’attenzione culturale ha modi diversi di mettere a fuoco i propri oggetti’. Nel nostro ambito l’oggetto è quello del ‘bravo alunno’ e alla luce delle molteplici diversità che la scuola in questo momento socio-culturale accoglie è lecito chiedersi: serve quindi che la scuola cambi prospettiva e lente di osservazione?
Se dunque di dia-gnosis è utile parlare, allora questa è utile che interroghi le interazioni scolastiche e coinvolga responsabilmente chi ha il mandato di gestirle… eccoci di fronte a dia-gnosis, in quanto processo di conoscenza…
Note:
[1] In tale sede si usa certificazione come sinonimo di diagnosi, seppur la nota 2563 del 22 novembre 2013 del MIUR offre una distinzione e quindi in termini burocratici l’una e l’altra hanno ricadute differenti.
Riferimenti bibliografici
Frances A. (2016). Primo non curare chi è normale. Bollati Boringhieri. psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze. Consiglio Nazionale Ordine Psicologi. (2016). I DSA e gli altri BES
Direttiva ministeriale 12/2012 ‘Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica’.
Goffman E. (1983). Stigma. L’identità negata. Giuffrè, Milano.
Ianes D., Canevaro A. (2008). Facciamo il punto su… L’integrazione scolastica. Tendenze, strategie operative e 100 buone prassi. Erikson.
Iudici A. (2015), Health Promotion in the School. Nova Publishers New York.
Milani, L. (1971). Lettera a una professoressa. Florence, Libreria Editrice Fiorentina.
MIUR – DGCASIS – Ufficio Statistica e Studi – Rilevazioni sulle scuole.
Pavone M. (2014). L’inclusione educativa. Indicazioni pedagogiche per la disabilità. Mondadori Università.
Salvini A., Iudici A. (2019). La Mente malata. Nexus Edizioni.
L’autrice dell’articolo:
Agata Gulisano
Specializzanda in Psicoterapia Interazionista. Si occupa di tematiche e interventi rivolti a minori e famiglie in difficoltà. Psicologa scolastica, promuove formazione e consulenza alle scuole e insegnanti.
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