Nellie Blay pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran (1864-1922), è stata una delle prime giornaliste investigative e d’inchiesta, dotata di grande intelligenza e intraprendenza. Ad esempio, giovanissima, in soli 72 giorni, nel 1890, incaricata dal suo giornale, fece da sola scrivendone il giro del mondo. Ma non è per questo che va ricordata. Si fece richiudere nel 1866 a 22 anni come malata di mente nel reparto femminile del Mental Health Hospital di Blackwell’s Islands, a sud-est di Manhattan. Riportò quello che nessuna esperta delle scienze cliniche della psiche ha mai avuto il coraggio o la scienza di capire e di dire. Inoltre scoprì l’interazione ‘contesto-mente’ anticipando quello che le psicologie ancor oggi faticano a capire, ad esempio scrisse “Prendete una donna sana fisicamente e mentalmente, rinchiudetela, tenetela inchiodata a una panca per tutto il giorno, impeditele di comunicare, di muoversi, di ricevere notizie, fatele mangiare cose improponibili. In due mesi sprofonda nella follia”. Riscontrò come le ‘lunatiche’ sottoposte all’arbitrio e alla sopraffazione, al ricovero coatto, per loro diversità, immoralità, ribellione o marginalità sociale, finivano, per i loro medici-carcerieri, ad impersonare le varie figure e tutti i pregiudizi della follia declinata al femminile.  Il suo articolo, “Women’s Lunatic Asylums” fu pubblicato nel New York World, diretto dal più che famoso Joseph Pulitzer. L’articolo ebbe allora una grande risonanza, ma non nelle Riviste della corporazione psichiatrica. Nonostante questa inchiesta e altre più recenti, niente è cambiato nella sostanza. Anche da noi i reparti di ‘Diagnosi e Cura’ e le loro estensioni sul territorio rimangono oggi quei mattatoi d’anime e di corpi, in cui si trascinano ‘pazienti’ inebetiti dagli psicofarmaci e dalle contenzioni subite. Penso che nessun aspirante psicologo clinico di oggi sappia dell’esistenza di Nellie Blay e della sua inchiesta e denuncia. Ma tutto questo è avvenuto molto tempo prima della legge Basaglia, peraltro incapace di modificare nella sostanza i ruoli, i saperi, le competenze, i poteri attribuiti alle pratiche psichiatriche. Ovvero lo zoccolo duro, la matrice rigenerativa della loro legittimazione. Modificare le stanze di un edificio, ma non il loro uso, non significa cambiarne l’architettura e il modo di pensare di chi le gestisce. Non ci sarà cambiamento se si affida il progetto all’architetto che ha concepito l’edificio a immagine e a somiglianza delle proprie credenze e ruolo.

Sorprende che il passato, come Nellie Blay, sia così in anticipo sul tempo presente in attesa di cambiamenti. Mentre i giovani studenti di psicologia clinica e specializzandi in psichiatria di oggi sono educati a replicare il conformismo professionale, costretti ad apprendere da inutili Report e altrettanti articoli, scritti con la tecnica del copia/incolla o invitati a citare Winnicott, piuttosto che Melania Klein, o a considerarsi gli eredi del pensiero residuale di un arido viennese, opportunista e senza cuore.

Prima di morire di polmonite a soli 57 anni, Nellie Blay confessò: “Non ho mai scritto una parola che non scaturisse dal mio cuore”. E il cuore si sa, anche se le psicologie accademiche lo negano e le psichiatrie ignorano, è la parte migliore del cervello e della ragione.